Articolo tratto dal terzo incontro del ciclo Crisi climatica e gestione delle risorse idriche: scenari e proposte di policy per l’asse fluviale del Piave tra Belluno e Treviso organizzato da AsVeSS con l’Osservatorio Economico e Sociale di Treviso e Belluno.
L’acqua può rappresentare tanto una risorsa quanto un rischio, nella sua abbondanza ma anche nella sua scarsità.
Non si possono adottare politiche efficaci se non si è consapevoli dell’impatto che queste avranno tanto sui rischi quanto sulle necessità, ma per farlo servono strumenti di analisi accurati.
Misurare l’impronta idrica significa, in estrema sintesi, pesare la nostra coscienza collettiva sulla bilancia della sostenibilità. Uno strumento in ogni caso flessibile, integrato e funzionale che consente un approccio olistico tanto alla quantità della risorsa quanto alla sua qualità.
«L’impronta è legata all’uso che si fa dell’acqua – spiega Alessandro Manzardo del Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale dell’Università di Padova – se la uso bene, l’impronta non è grande ma lo diventa se la uso male. Si tratta di un insieme di metriche che quantificano i potenziali impatti ambientali e ci permettono di studiare qualunque prodotto o servizio e misurarne la gestione idrica».
Una misura precisa permette un’efficace ottimizzazione dei processi ma ha anche ricadute positive in termini di sensibilizzazione della clientela: se di per sé l’attenzione all’ambiente e al consumo d’acqua rappresenta un valore intrinseco di beni e servizi, quand’è comunicato correttamente può rivelarsi anche una valida e positiva leva di marketing di prodotto.
Una traccia del proprio passaggio non meno significativa la lasciano anche le comunità, le famiglie e le utenze domestiche che quotidianamente consumano l’acqua.
«Sono circa 600 mila le famiglie che riforniamo quotidianamente – spiega Loris Pavanetto di Etra – si tratta di un servizio integrato che comprende captare l’acqua, renderla potabile (poco, perché l’acqua è ancora relativamente buona), gestire la fognatura e la depurazione».
La strategia in questo senso passa dalla cosiddetta distrettualizzazione: dividere il territorio e la rete in zone, prevedendo pozzetti di misura, valvole per la regolazione della pressione, ma anche un piano di monitoraggio continuo delle anomalie, utile per risolvere in tempi rapidi le perdite.
Guardare alla risorsa idrica in modo integrale ha portato Etra a dar vita anche al progetto Life Brenta 2030, volto alla promozione di schemi di governance e di finanziamento innovativi per la conservazione della biodiversità e della risorsa idrica del fiume Brenta.
«Life Brenta 2030 – chiarisce Omar Gatto di Etra – è nato dalla constatazione che, nel medio corso del fiume, coesistono un sito Natura 2000 che si sviluppa attraverso 15 comuni, ma anche il campo pozzi più importante del Veneto. Da Camazzole, infatti, sgorga l’acqua che poi arriva a 1,5 milioni di persone».
Da un lato si tratta di fare sistema, assicurando un finanziamento sostenibile al progetto tramite le risorse già a disposizione, dall’altro di svilupparne gli ambiti di attuazione: dagli interventi di rinaturalizzazione e contenimento alle attività di monitoraggio del suolo e delle acque fino all’educazione della cittadinanza, in un quadro generale di approccio ecosistemico e governance innovativa.
A far da cornice a tutti questi processi, però, rimangono le difficoltà indotte dai cambiamenti climatici e dalle conseguenti estremizzazioni atmosferiche.
Ad accorgersene sono stati, fra gli altri, gli automobilisti che hanno rinnovato di recente le assicurazioni contro gli eventi atmosferici: gli eventi estremi sono diventati più probabili e più intensi a causa dell’intensificazione del ciclo idrologico.
«Aumenta anche la frequenza delle ondate di siccità – mette in guardia Eugenio Straffelini del Gruppo di ricerca in idraulica agraria dell’Università di Padova – e rappresenta una delle grandi sfide del futuro. Ricordiamo che nel 2022, la siccità colpì già dalla primavera».
A farne le spese è soprattutto il settore agricolo: in quell’anno Coldiretti registrò un calo di circa il 30% nella produzione di riso, con una forte risalita del cuneo salino dal mare.
A diventare più aride sono, in proporzione, le zone montane, ma a pagare il conto è anche la pianura e la fascia collinare, che vedranno alcune colture simbolo – come i vitigni, i frutteti e vari ortaggi – in particolare sofferenza.
«La soluzione – chiarisce Straffelini – è la costruzione di invasi, come in Argentina, dove riescono a fare viticoltura con la metà dell’acqua che si usa di solito. Oppure sviluppare i microinvasi, adattando la tecnologia al territorio, come nelle colline del Prosecco dove sono presenti ciglioni e gradini, con la prospettiva che possano fungere anche da piccoli bacini di laminazione».
Per attuare tutto ciò serve consapevolezza dei rischi e degli strumenti a disposizione, certo, ma anche conoscenza del territorio. Bisogna recuperare una certa “memoria dell’acqua”, dei suoi percorsi ancestrali e degli elementi intrinseci nella storia delle nostre comunità che, talvolta, hanno conservato nei toponimi informazioni che altrimenti sarebbero state dimenticate.
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